Il
caso
OSA,
società ceca di gestione collettiva dei diritti d’autore relativi alle opere
musicali, agisce in giudizio contro un istituto termale, pretendendo il
pagamento dei compensi dovuti per la trasmissione radio/tv di opere protette
nelle camere dell’istituto. Per OSA, inoltre, la legge ceca viola il diritto UE
perché esclude dal pagamento dei compensi gli istituti di cure sanitarie, con
riguardo alle trasmissioni effettuate nell’ambito delle prestazioni sanitarie
da loro fornite.
L’istituto
sostiene al contrario la legittimità dell’esclusione e accusa OSA di abusare
della propria posizione dominante (rivendicando anche il proprio interesse a
rivolgersi ad un ente di gestione collettiva di un altro Stato UE per ottenere
condizioni più favorevoli).
La
decisione della Corte di Giustizia
Innanzitutto,
si precisa che l’istituto termale realizza un “atto di comunicazione al pubblico” ai sensi della direttiva 2001/29
e riconosce che la legge ceca viola il diritto UE prevedendo l’esclusione
dall’obbligo di pagamento del compenso gli istituti di cure sanitarie,
relativamente alle trasmissioni effettuate nell’ambito delle prestazioni
sanitarie.
Gli
altri temi affrontati riguardano la libera prestazione di servizi in tema di gestione
collettiva dei diritti e l’abuso di posizione dominante da parte di OSA,
monopolista nel mercato ceco.
Confermando
la natura di “fornitore di servizi” di OSA alla luce del diritto europeo, la Corte
riconosce che il monopolio per la gestione collettiva dei diritti d’autore,
previsto dal diritto ceco, costituisce una restrizione alla libera prestazione
di servizi, perché impedisce agli utilizzatori di opere protette, come
l’istituto termale, di rivolgersi ad enti di gestione collettiva situati in
altri Stati membri dell’UE.
Per la
Corte, tuttavia, tale restrizione non viola il diritto dell’Unione Europea, perché
è diretta a salvaguardare la tutela della proprietà intellettuale e garantisce
una protezione dei diritti efficace, “nel
contesto di una protezione territorializzata del diritto d’autore”.
I
giudici di Lussemburgo, tuttavia, sottolineano più volte che questa valutazione
è compiuta “allo stato attuale del
diritto dell’Unione”.
La
Corte sottolinea, infine, che il monopolio nella gestione dei diritti
collettivi non è vietato di per sé,
ma solo in quanto si traduca in un abuso di posizione dominante (di cui sono
indizi sia l’imposizione di tariffe più elevate rispetto a quelle praticate
dagli altri Stati membri sia l’eccessivo ammontare delle tariffe rispetto al
valore economico delle prestazioni fornite). Spetta al giudice nazionale decidere
se l’abuso ricorre in concreto.
Perché
questa sentenza è importante?
La tesi
della Corte – contraria a quella espressa dalla Commissione Europea - è
coerente con il quadro giuridico esistente fino al febbraio 2014: neanche un
mese dopo, infatti, è entrata in vigore la Direttiva 2014/26 sulle collecting societies, che
supera e risolve molte questioni qui affrontate.
La
Corte sembra consapevole di ciò e rimarca infatti che essa giudica “allo stato attuale del diritto UE”. Più
esplicite erano state, sul punto, le conclusioni dell’Avvocato Generale
Sharpston, che citavano la (allora) proposta di direttiva collecting. È molto probabile, quindi, che la Corte rivedrà la
propria posizione quando ne avrà l’occasione.
Quanto
alla questione del monopolio – verso, naturalmente, il diritto UE non nutre
alcuna preferenza - Corte e Avvocato Generale ribadiscono che essa è una delle
possibili soluzioni, da cui importanti esperienze di altri Paesi europei
(Svezia e UK) si discostano da tempo senza pregiudizio per gli interessi dei
titolari dei diritti.